La danse du destin

Sarajevo, 12 ans après

Prefazione

Di là del vetro

Sarajevo. Altri nomi , altri luoghi di guerra e orrore occupano oggi i telegiornali e catturano spesso a fatica la nostra preziosa e volatile attenzione. Che ci rimane di Sarajevo, dopo diciotto anni? Ben poco, se qualcuno non avesse deciso di ritornarci e di raccontarlo, questo Ritorno a Sarajevo. A partire dalle foto scattate nel 1994 Agostino Pacciani ha rintracciato le persone alle quali aveva – è il termine che lui usa – rubato quegli scatti. Si è sentito in dovere di restituire qualcosa che probabilmente solo lui riteneva di aver rubato al calzolaio degli stivali invenduti, all’accigliato barbiere di Kovaci, alla piccola Nejra, anche se nessuno di loro si è sognato di rimproverarlo per questo. C’è una specie di paradosso etico in questo sentimento. Un’ oltranza che lascia interdetti, assuefatti come siamo alla regola non scritta ma trionfante secondo la quale è lecito tutto ciò che non è esplicitamente proibito. E anche la consapevolezza che il “mettersi in posa” di queste persone comporta una specie di violenza, quella particolare specie di violenza che la fotografia esercita sui corpi in posa. Mi vengono in mente i comunardi parigini che si fecero fotografare sulle barricate, e che dopo la capitolazione proprio tramite quelle immagini furono riconosciuti dai poliziotti e quasi tutti fucilati. Per dire che in certe situazioni anche mettersi in posa può essere un atto di coraggio. O di incoscienza. Per dire che la violenza esercitata dalla fotografia può anche essere tutt’altro che metaforica indipendentemente dalle intenzioni.
“Vi sono fotografi di guerra che in ogni momento della loro vita cercano solo l’attimo, il momento decisivo. La foto che riesce a riassumere un conflitto” scrive Carol Mann nell’introduzione al catalogo della mostra. Neanche Agostino ha rinunciato a tentare di cogliere l’istante, lo scatto che riassume un conflitto. Ogni sua foto è un’epifania: apparizione (splendore) del senso di una vita che continua non sotto, e neanche sopra, ma nonostante le macerie, nonostante la paura. Negli occhi dei due ragazzi che ci guardano di là dal parabrezza crivellato dai proiettili c’è tutto: la voglia di stare al gioco del fotografo, lo sberleffo, l’incoscienza. La vita. E’ una foto conclusa in sé, che non avrebbe bisogno di altro. Al di là del vetro, l’istante decisivo.


Se per Benjamin l’agricoltore sedentario e il marinaio viaggiatore sono i prototipi di ogni narratore, allora non c’è dubbio che Agostino appartenga al secondo genere. Fotografo errante , viaggia leggero con le sue fotocamere a tracolla, a suo agio nei più nascosti recessi della città. Altri professionisti usano potenti teleobiettivi, non tanto per avvicinare il soggetto, quanto per rimanerne a debita distanza: non è certo il caso di Agostino. Lui rompe il diaframma di cristallo che separa dalla vita. Il suo racconto è impregnato di esperienza, odora del contatto con le persone, risuona dei rumori della città, e parla mille volte più di qualsiasi servizio giornalistico, fermandosi però sulla soglia oltre la quale si apre il dominio dell’interpretazione. Dove l’informazione impone spiegazioni e ricostruzioni, il come e il perché, Agostino si limita a suggerire, lasciando libero l’osservatore di connettere i fatti, di immaginare. Rende conto del disastro, ma anche delle contraddizioni del dopoguerra; il dolore per i sommersi, la felicità dei salvati, ma anche le incertezze del presente.

I romanzi non sono semplici elenchi di eventi: connettono gli eventi dando risposta alla domanda Perché? Perché sorridono, anche nel 1994, in piena guerra, quelle bambine che giocano al trenino? Perché Amra nonostante tutto si siede al pianoforte in quella camera bombardata? Non si rendono conto della tragedia che li investe? Elma, Amra, Namik e tutti gli altri mi appaiono dapprima come bloccati sullo sfondo di quelle rovine, ma subito nasce in me la voglia di sapere perché non si arrendono, com’è andata a finire, se e come vivono oggi queste persone.
Così, immersi nel flusso temporale di un racconto alimentato dalle nostre domande, sfogliamo alla velocità della letteratura (del cinema) la vita vera di queste persone. La distanza tra i due fotogrammi spalanca uno spazio sconfinato all’immaginazione di chi osserva. Ago ha innescato una sorta di reazione a catena, ha fatto in modo che chi guarda possa connettere gli eventi in un racconto, ci ha aggiunto le vere voci dei protagonisti, pervenendo a una sorta di narrazione o sceneggiatura corale non scritta della quale forse suo malgrado (abbiamo già detto che si sente un po’ ladro) è ormai definitivamente co – autore. Insieme a tutti quelli che guardano le sue foto. Insieme a Namik, Amra e tutti gli altri.

Carol Mann e Guglielmo Turbanti